sabato 20 febbraio 2016

Il Museo

“Il Museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto”… Questa è la definizione di un’istituzione, nata tra 700 e 800, data dall’ICOM, vale a dire International Council of Museums.
Ho iniziato a riflette su che cosa sia il Museo dopo la prima lezione di museologia, o storia del museo; sembra una risposta banale la domanda “Che cos’è un museo”, ma ti accorgi poi che in realtà non è così.
Il Museo espone una collezione, più collezioni, espone pezzi di vita e di storia dell’umanità intera, racconta una storia contemporanea, una storia passata da più o meno tempo, racconta della nascita del mondo, dell’uomo, di tutto ciò che di fisico esiste al mondo, ma anche nell’Universo.
Questo cosiddetto “luogo” quindi, deve saper raccontare, narrare, una storia, con i tanti linguaggi oggi disponibili: un racconto fatto quindi da elementi multimediali ed informatici, ma anche da audio, da esperienze tattili e poi dal più classico linguaggio visivo attraverso oggetti, sculture, dipinti, fotografie.
Resta il fatto che, per me, il museo deve parlare al suo pubblico perché se non comunica, viene meno alla sua funzione principale; immaginate di andare in un museo che non mostra nulla… sconcertante no?
Oppure possiamo leggere il silenzio e l’assenza di narrazione come un contenuto esso stesso? 
Può un’arte (pensando inevitabilmente a quella contemporanea o post-contemporanea) comunicare il vuoto, il silenzio, l’assenza? Se è fatto consapevolmente credo di sì, perché può rappresentare una mancanza, un vuoto che è presente oggi nella società… 
Applichiamo questo pensiero alla realtà: “Attese” di Lucio Fontana… Tela bianca (il colore può essere strumento di comunicazione) con un taglio netto… apparentemente non comunica nulla… e se quel nulla da un punto di vista figurativo fosse proprio un’assenza di contenuto consapevole? L’artista potrebbe comunicare un’assenza di ispirazione, un’assenza di contenuto, un linguaggio che oggi non vale più… La cultura figurativa potrebbe aver finito la sua carriera, forse il taglio della tela significa che dobbiamo abbandonare il figurativismo e la tela stessa in favore ad altri supporti e linguaggi?
Riflessioni che lascio anche a tutti coloro che le leggeranno..

Sta di fatto che il Museo ci pone dinnanzi a grandi interrogativi e racconta le epoche… racconta di pittori, degli artisti, della natura, della società nella sua interezza, dell’uomo…
Immaginare un mondo senza musei non è possibile perché verrebbe meno una parte fondamentale di noi, la nostra storia, il nostro diletto, le nostre tradizioni e radici… 
Il museo quindi diventa anche un ricordo e questo ricordo va conservato, mantenuto, curato, coccolato, reso accessibile a tutti… Il museo è nostro da questo punto di vista… non voglio parlare dell’aspetto economico (le tasse come modo di contribuire alla cultura, il che rende il museo di fatto nostro), ma proprio del fatto che raccontando la nostra storia, noi dobbiamo sentirci parte integrante del racconto e siamo anche noi, oggi, a dover contribuire alla continuità della storia…

domenica 6 dicembre 2015

Arte, fotografia e percezione

Oggi voglio affrontare un argomento particolare che mette insieme l'arte figurativa e pittorica con l'arte delle fotografie, soprattutto quelle del foto-giornalismo che vediamo sui quotidiani, sui magazine e anche nelle mostre.

Spesso chi lavora in una mostra di foto-giornalismo deve dire o sentirsi dire che le foto che si vedono non sempre sono adatte ai bambini e che queste possono turbarli.

Posso condividere questo pensiero perché effettivamente vedere cadaveri, vittime di combattimenti, persone gravemente malate, può turbare... Ma è giusto questo? E soprattutto, quando vediamo dipinti in cui Giuditta tiene per i capelli la testa appena tagliata e grondante di sangue di Oloferne (uno dei tanti esempi che ci sono) dovremmo avere la stessa reazione? Abbiamo la stessa reazione di allontanamento dell'immagine e "censuriamo" ai bambini tali immagini?

La risposta alla prima domanda è difficile: ovviamente la realtà di una fotografia ci obbliga a vedere la realtà, ad osservare in modo crudo e diretto il mondo in cui viviamo, un mondo che ci è molto vicino (si pensi alle stragi di Parigi, geograficamente vicine a noi) e che quindi ci tocca nel profondo.
Ne scaturisce una riflessione inevitabile.
Un bambino non dovrebbe essere testimone di così tata violenza, soprattutto perché ancora ovattato nel mondo delle fiabe che si crea e che gli permette di crescere e imparare alcuni valori importanti.
Però quando guardiamo il telegiornale cenando, non vede e sente forse immagini simili? Sono così tanto diverse le immagini che il TG ci presente quotidianamente nei momenti tra l'altro più conviviali della giornata, quelli che condividiamo con i nostri figli e le nostre famiglie?

Ad ognuno la propria risposta e la propria riflessione, ma vorrei dare una risposta anche alla seconda domanda: dobbiamo per caso allontanare anche quell'altro pittorica che ci presenta omicidi e barbarie che fanno parte della storia o della mitologia?
Se fossimo coerenti la risposta sarebbe si, dobbiamo tenere lontani i bambini perché immagini crude e poco adatte alla loro età.
Ma lo facciamo?
Non mi è mai capitato di vedere genitori uscire dalla mostra con i figli perché i dipinti erano troppo crudi...
Il dipinto si osserva e fa riflettere in modo diverso, ma perché? Anche la fotografia fa parte dell'arte, entra dentro di noi con lo stesso canale sensoriale, la vista... Eppure è percepito dalla nostra coscienza come un qualcosa di diverso, senza riflettere sul fatto che la fotografia è veloce, istantanea ed immediata esattamente come tutto nella vita di oggi, nella vita dei nostri figli...

Ci tenevo a condividere questo pensiero perché mette in luce a mio avviso una discriminazione dell'arte fotografica rispetto alla pittura che, però, non ha delle basi solide su cui poggiare...

mercoledì 25 novembre 2015

Un artista controverso

“Praxis”, questo è l’aggettivo che il biografo Bellori, a metà Seicento, utilizza per identificare la personalità complessa di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Perché proprio “praxis” anziché, come ci si aspetterebbe, “lumen et umbra” (attribuito invece a Poussin)?
La pittura di Caravaggio è fatta di luce e ombra, così come lo era la sua evoluzione artistica: se si osservano le opere romane del primo periodo e le si confrontano con quelle del secondo periodo presso il Cardinal del Monte, è possibile osservare come le prime fossero irradiate di luce, con sfondi che mettevano in risalto il taglio di provenienza della fonte luminosa, mentre quando iniziano le opere a carattere religioso le atmosfere non solo si incupiscono, ma le figure sono perennemente immerse e cristallizzate nell’oscurità, un buio che, però, porta in rilievo il volto dei personaggi e tutti qui dettagli che erano importanti (ricordo che la pittura di Caravaggio era fortemente simbolica e piena di rimandi) per la corretta lettura e comprensione dell’opera.
Il motivo per il quale Bellori utilizza “praxis” si lega al fatto che l’arte del maestro lombardo si costruisce sull’estremo realismo e naturalismo, che porta ad avere figure vere, non idealizzate e che vivono quotidianamente la realtà cittadina nelle vie e nelle osterie che l’artista stesso frequentava costantemente. 
Le figure religiose hanno come modello persone normali del popolo: caso eclatante di questo aspetto è senza dubbio la “Morte della Vergine”, opera che risale al 1604-1606 circa e nella quale il modello della Vergine era stato il corpo senza vita di una prostituta trovata morta nel Tevere (ovviamente l’opera fece scandalo!).
Tutta via non solo casi estremi come quello appena descritto, ma moltissime altre opere erano così naturalistiche e soprattutto tanto realistiche da essere anche rifiutate dai committenti perché considerate poco consone; ne sono un esempio le opere per la Cappella Cantarelli in San Luigi dei Francesi (“Vocazione di San Matteo”, “San Matteo e l’angelo”, “Martirio di San Matteo”), rifiutate per l’elemento crudo e realistico che non era consono al luogo e al carattere devozione e sacro che quelle opere richiamavano.

La personalità di Caravaggio è molto complessa ed articolata e la sua vita ovviamente ne è lo specchio: dopo la sua formazione lombarda si sposta già all’età di 20 anni a Roma dove, in un primo momento, lavora con il Cavalier d’armino e poi viene introdotto alla corte del Cardinal del Monte.; si sposta poi a Napoli nel 1607 dopo il famosissimo omicidio commesso durante una lite per strada, per trasferirsi poi a Malta; anche a Malta ha problemi con la giustizia e scappa alla volta della Sicilia dove lavora nelle città di Siracusa, Messina e Palermo.
Caravaggio, grazie all’intercessione di persone potenti e che appoggiavano la sua arte, si avvia verso Roma (era vicina la grazia per l’omicidio commesso anni prima), ma appena partito da Napoli sarà colto da malaria e morirà su una spiaggia.

Come si vede la vita è stata molto articolata e movimentata e tutto, sia il Caravaggio-uomo sia il Caravaggio-artista, è caratterizzato dal realismo e da una condizione estremamente “pratica”, umana, cruda.

Chissà, forse proprio questo è all’origine della fortuna critica altalenante di questo grande maestro! 
  

venerdì 20 novembre 2015

L’esistenzialismo di Giacometti

Non posso non dedicare un post sul mio artista preferito, Alberto Giacometti.
Nasce il 10 ottobre 1901 in Svizzera da un padre pittore, aderente al neo-impressionismo, che lo inizia all’arte fin da piccolo. 
Già a 20 anni viaggia e soggiorna a Roma, per conoscere le opere dei grandi maestri della storia dell’arte italiana e quel classico che tanto attirava gli artisti fin dal rinascimento.
Proprio la sua formazione lo porta nella direzione di un’arte priva di intellettualismo e che si rivolge alle sue origini e verso uno studio approfondito della figura umana, ma non uno studio anatomico e figurativo dell’essere umano, bensì verso la condizione dell’uomo da un punto di vista antropologico che sfocerà, qualche anno più tardi in una riflessione esistenzialista.
Proprio l’esistenzialismo di Giacometti, che si sviluppa negli anni ’30, lo porta ad avvicinarsi al grande filosofo francese Sartre: i due si conoscono e proprio per le loro riflessioni affini riguardo l’esistenza e la figura dell’uomo entrano in sintonia, influenzandosi anche nella realizzazione dei rispettivi lavori.

Tante sono le opere che riflettono queste riflessioni di Alberto, ma una su tutte mi ha sempre colpito ed è forse anche l’opera su cui mi soffermo di più ogni volta che la vedo, in foto o nella mia mente: si tratta de “L’homme qui marche”, “L’uomo che cammina”.
Scultura in bronzo alta 183cm si presenta agli occhi dello spettatore come una figura scarna, consumata, emaciata; la forma è innaturalmente allungata, con una testa straordinariamente espressiva e studiata.
Ma al di la della forma, mi interessa la sua condizione e la condizione dell’uomo che si concentra in questa figura scheletrica e consumata: l’uomo cammina come dice il titolo ed è spontaneo chiedersi “dove?”; la risposta non c’è e l’opera, a mio avviso, è riuscita nel momento stesso in cui suscita la domanda, poiché non penso che Giacometti volesse fornire una risposta e dare quindi una meta al suo Uomo, anzi, voleva che chi gli si trova davanti si interroghi su quale sia la destinazione dell’essere umano e la propria.
Tutti noi compiamo un viaggio, che si chiama vita, ma qual è il nostro obiettivo? Dove ci porta la nostra vita? E’ possibile prefissarsi una meta?
Domande la cui risposta è aperta, soggettiva, individuale…
Già individuale: perché l’Uomo che cammina verso il suo obiettivo, Giacometti lo rappresenta da solo e l’essenza della solitudine dell’essere umano di Alberto la si percepisce di fronte a molte altre opere di Giacometti, soprattutto in quelle “foreste” di uomini che camminano.
La fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence ospita diverse opere di Giacometti e anche alcuni esempi di questi insieme di uomini, come ad esempio “Trois hommes qui marchent”, “Tre uomini che camminano”: questi 3 uomini condividono uno spazio preciso, un suolo, un basamento bronzeo; condividere uno spazio spesso ci porta ad immaginare una condivisione anche di parole, gesti, movimenti, momenti, ma in realtà osservando l’opera ci si accorgiamo che questi 3 uomini non condividono nulla se non, appunto, lo spazio; tutti e 3 sono intenti a camminare verso una destinazione; non si scambiano sguardi, parole, gesti, contatti.
Di nuovo ecco che si esprime la riflessione sulla condizione dell’uomo, un’esistenza fatta essenzialmente di solitudine; ogni uomo ha un proprio obiettivo, incontra altre persone, ma non condivide con queste nulla perché senza dubbio quelle hanno mete diverse.
L’uomo viene consumato dalla vita, dal tempo, dalle forze che agiscono nel mondo, senza trovare rifugio negli altri.


Queste riflessioni possono essere visionarie, corrette, condivisibili o meno: questo è il bello dell’arte così poco accademica e classica, che ognuno può riflettere e può ragionare partendo da quella piccola scintilla che l’artista lascia con e nelle sue opere. 

lunedì 16 novembre 2015

L'importanza delle fonti: Vasari

Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori è il titolo di una delle più famose raccolte biografiche della storia dell’arte, scritta da Giorgio Vasari nel 1550 con una seconda edizione nel 1568.
Perché parlare di questa grande (sia di dimensioni che di importanza) opera?
Beh ammetto che neppure io l’avevo mai presa in considerazione più di tanto e, anzi, mi chiedevo perché leggerla visto che ci sono già tanti saggi e monografie e manuali di arte che mi raccontano tutto dell’artista…
Poi per un esame universitario ho dovuto leggerne alcune parti (piccolissime rispetto all’impianto dell’opera) e devo dire che mi sono dovuto ricredere!
Vasari è un architetto e un pittore quando scrive le vite, non un letterato o un teorico… questo fa sì che sia dentro la materia, la viva, la studi… ed è un valore aggiunto notevole!
Grazie alle “Vite” ora i passaggi tra un’epoca e l’altra mi sono più chiari, così come hanno un sapore più autentico le biografie degli artisti.

L’arte è anche studiare le fonti, non solo l’opera d’arte che vediamo nei musei.
Se vogliamo leggere correttamente un dipinto, un mosaico, una statua, dobbiamo sapere chi l’ha fatta, in quale contesto, ma anche a quale movimento l’artista aderisce o non aderisce, quali sono le novità stilistiche che apporta o quali sono i maestri dai quali ha tratto ispirazione, che tipo di formazione ha ricevuto all’inizio della sua carriera.
Sapere che Piero della Francesca ha avuto come maestri e quindi ha guardato all’arte di Masaccio e di Beato Angelico, sapere che Michelangelo ha guardato alle novità spaziali e “monumentali” di grandi come Giotto, Masaccio e Donatello, aiuta lo spettatore ad una lettura più precisa, accurata e storicamente/artisticamente più completa.
Questa “formazione” che lo spettatore dovrebbe avere comprende anche la lettura delle fonti, tra cui oggi voglio appunto ricordare Vasari.
Questo non vuol dire dimenticarsi della componente emotiva, anzi! 
Guardando un’opera è fondamentale trascorrere alcuni secondi/minuti ad osservarla e a creare quel muto dialogo, che tanto si cercava nel Rinascimento, tra tela e spettatore; quando abbiamo instaurato un legame, allora possiamo chiederci chi sia l’artista, quale sia il contesto e tutti quegli elementi che ho stato prima.


sabato 14 novembre 2015

Parigi

Quale titolo migliore per inaugurare questo nuovo blog?
Da ieri sera tutto si è fermato e tutti ci siamo stretti attorno alla comunità di Parigi, devastata (moralmente e non solo) dagli attacchi terroristici del 13 novembre 2015.
Al di là degli eventi e dei fatti di cronaca, continuamente in divenire, la notizia legata più a questo blog è la chiusura di tutti i musei e delle istituzioni culturali: perché?
Beh, l'arte e tutto ciò che ruota attorno ad essa è sinonimo di pace, libertà di pensiero, espressione, credo religioso, ma soprattutto ricordiamoci che è libertà di vivere!
Il museo chiuso credo si debba leggere come la fine del diritto e della libertà di vivere e nel 2015 è inconcepibile.
Tutti, ogni singolo uomo dotato di intelligenza e sensibilità, dobbiamo batterci affinché i musei riaprano e l'arte possa portare speranza, vita, felicità nella vita di ciascuno di noi.

Non mi dilungo per oggi... lascio che queste poche parole possano toccare l'animo e il cuore di ognuno di voi...

A presto

M.